Insegnanti in contrattempo: riflessioni di un (neo)laureato a partire da un libro di Gian Luigi Beccaria

Marco Morosini

È difficile immaginare la sorte di un laureato che, conclusa la cerimonia di conferimento del titolo, si lascia alle spalle la sicura soglia dell’Ateneo. La sensazione che si avverte è paragonabile, ammesso che se ne possa ricostruire il ricordo, al primo drammatico abbandono che si sperimenta nella vita, quello del grembo materno. Finché è attivo un percorso universitario, e non si è ancora in cerca di un’occupazione, le uniche ansie sono legate allo studio e, eventualmente, all’ottenimento di un buon voto negli esami. Ma dopo aver tagliato il traguardo, la luce alle finestre si attenua sempre più, e giunge, inesorabile, la notte dell’incertezza: con la corona d’alloro ancora in testa si brancola nel buio, e si comincia a provare l’inquietudine di non poter trovare il proprio ruolo nella società. Ma a volte la sorte, e un minimo di tenacia, aiutano; per esempio, possono portare a incarichi di insegnamento, come è capitato al sottoscritto nel Liceo Classico “C.A. Dalla Chiesa” di Montefiascone, nel Linguistico e delle Scienze Umane “A. Meucci” di Ronciglione-Bassano Romano e nello Scientifico “Cardinal Ragonesi” di Viterbo. 

Ci si deve buttare. Però che cosa c’è dopo la punta del trampolino? Oggi ci attende un mondo in cui non c’è più tempo: per leggere, per riflettere, per rigenerarsi dentro, per ricercare la verticalità, antitesi di una estensione solo in superficie. La velocità invade i nostri giorni, frantuma pensieri ed azioni e, senza una strenua resistenza, ci trascina in un turbine. Chissà cosa direbbe Gian Luigi Beccaria, linguista e critico letterario di fama, oggi ottantaseienne, saggio testimone di un’altra epoca, osservando un laureato in Filologia Moderna, entrato nel sistema scolastico. Di certo, leggendo le 120 pagine del suo breve ma intenso libro, In contrattempo. Un elogio della lentezza, edito un mese fa da Einaudi, chi scrive trova singolari corrispondenze con le proprie impressioni di neodocente. 

Entrando in un’aula scolastica, si avverte una grande distanza con il mondo universitario: il senso di conviviale sapienza che si provava è solo un ricordo. Le condizioni della scuola italiana sono analizzate, fra gli osservatori più attenti, anche da Giulio Ferroni: a lui si devono La scuola sospesa. Istruzione, cultura e illusioni della riforma (Einaudi, 1997), La scuola impossibile (Salerno, 2015) e Una scuola per il futuro (La Nave di Teseo, 2021)L’iper-formazione del personale docente, ricco di competenze e povero di conoscenze concrete, l’imperio della programmazione e delle attività extra-curriculari, la quantità degli impegni burocratici (spesso resta solo un piccolo ritaglio di tempo alla preparazione della didattica), la rincorsa di modelli innovativi a volte irraggiungibili nella loro astrattezza: ecco alcuni dei caratteri, se non dei guasti, della scuola che io sto conoscendo. Quanto spesso sento parlare, e io stesso mi esprimo, in didattichese (il gergo che Beccaria stigmatizza a p. 36) in una scuola che ha disimparato l’arte dell’approfondimento, mandando nel dimenticatoio quanto che della cultura umanistica più appassiona e attrae. Sarebbero da indagare le cause di questa tendenza, descritta da Beccaria con toni apocalittici (e anche un po’ esagerati); intanto, ci si può limitare a riconoscere che la responsabilità dei docenti stessi è forte e determinante. C’è necessità di tenere gli alunni sempre attivi e interessati, e questo è possibile solo offrendo loro delle chiavi di interpretazione dell’essere al mondo (p. 41). In questa corsa nel buio che ci impegna non dovremmo perdere di vista alcuni grandi punti di domanda: che cosa sono davvero le humanities? Qual è il loro scopo? Perché hanno un rilievo sia individuale sia sociale? D’altro canto, oggi, l’istinto di autoconservazione induce chi lavora col pensiero, e davanti ha una scolaresca, a una continua, a volte perfino eccessiva, apologia della propria identità e del proprio ruolo: ne ragiona, oltre a Beccaria a p. 34, anche Sabino Cassese in Intellettuali (il Mulino, 2021). 

Per contrastare le derive è compito del docente, o della docente, gettare nelle menti giovani il seme della curiosità, del desiderio, del dubbio; è lui, o lei, che è chiamato/a a fornire gli studenti degli strumenti adatti per apprezzare appieno prima di tutto la poesia, così che essi possano giovarsene per conoscersi, dando voce a una emotività troppo latente e a rischio di spegnimento anziché di diffusione. È suo dovere anche mostrare, attraverso la prosa e la razionalità delle sue costruzioni, come poter trovare un ordine al disorientamento interiore che mortifica il nostro potenziale espressivo (p.23). Le soluzioni non sono semplici. Al netto delle, anche nobili e a volte motivate, teorizzazioni sul sistema educativo, l’impressione empirica è che oggi nella scuola si scriva e si legga troppo poco, ossia non si possa fare ciò che in sé richiede impiego di tempo. Il saggio di Beccaria fa riflettere sulla vitalità del valore della lentezza e sul fatto che, apprezzando l’indugio, condizione necessaria per lo sviluppo di una coscienza critica (p. 97), si impara anche ad amare. Ecco perché noi docenti di scuola abbiamo una responsabilità: dobbiamo difendere la valenza emotiva delle idee che elaboriamo e della nostra convivenza, evitare che l’effimero continui a pervadere il presente, ripudiare l’omologazione (p. 47), ricercare il dettaglio (p. 9), abituare alla revisione, insegnare ad apprezzare la complessità, la lunghezza, la lentezza. Chiediamo soltanto che ci sia restituito ciò che più ci appartiene, il bene prezioso senza il quale è impossibile esercitare questa splendida professione in un modo più efficace. Chiediamo solo il nostro tempo, che troppo ci è sottratto. 

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